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Jean-Frédéric Schnyder
Foto di Marco Schibig 7.7.1983

Jean-Frédéric Schnyder

vedi opere:
Jean-Frédéric Schnyder
Per amore solo per amore

Viaggi di silenzi e di voci

Jean Frédéric Schnyder vive e lavora a Zug, Svizzera.
 
PER AMORE SOLO PER AMORE

Schnyder comincia il suo lavoro dagli anni Sessanta, creando un complesso di opere che spaziano tra scultura, fotografia, pittura ed installazioni; concettualmente e radicalmente aperto nel processo creativo, ogni serie a cui si dedica conduce a risultati affascinanti e talvolta inaspettati persino per l’artista.
Schnyder non aderisce semplicemente a quella che è l’idea comune del soggetto da rappresentare, ma tenta di discernerne il significato intrinseco, per giungere, dopo studio e dedizione, a nuove interpretazioni e punti di vista sullo stesso. Il risultato del suo metodo è un’ampia serie di lavori che presentano discontinuità formale: alcuni dei suoi approcci sono così differenti l’uno dall’altro da sembrare escludersi a vicenda, come fossero frutto di artisti diversi; è la mente creatrice di Schnyder l’elemento unificante di tutto.
Comincia a porre attenzione alla pittura in un periodo in cui si riteneva fosse un mezzo superato: da parte sua vi è un sincero entusiasmo per questo mezzo espressivo, e non una mera dichiarazione d’intenti, con cui opporsi alla moda. Il suo stile non mostra uno sviluppo stilistico, poiché è sentito come il mezzo cui attingere per ogni dipinto o serie (le stazioni ferroviarie, le vedute del lago di Berna, le strade del viandante – “Wanderung”), e questo causa nelle opere una vera eterogeneità di poetica e scelte formali.
Si dedica alla pittura en plain air per questioni originariamente di necessità: non avendo uno studio dove lavorare, la soluzione dal vero, che lo conduce in giro per la Svizzera con la bicicletta e il cavalletto in spalla, risulta la più indicata per sperimentare appieno la sua tecnica. E’ importante notare come primario interesse dell’artista fosse il processo stesso della pittura, l’atto del dipingere con esatta percezione della realtà, da cui deriva una rappresentazione del soggetto priva di filtri: appaiono nelle tele dettagli che altri avrebbero omesso - come tralicci e insegne pubblicitarie - , che mal si adattano alla tradizione romantica dei paesaggi svizzeri,  che per Schnyder diventano inevitabilmente parte integrante.
Confidandoci lo scenario delle sue giornate, il piccolo spettacolo intimo e quotidiano del mondo dell’uomo amico e nello stesso tempo nemico della Natura, l’artista presenta una geografia minuta che tutti i giorni si dipana sotto gli occhi di camionisti, automobilisti e passanti, o mostra sale d’attesa dove, mentre ciascuno attende, lui trova, trasformando le ‘vedute’ in visioni ricche di poesia e suggestione.
È significativo il forte legame che viene a crearsi con Fischli e Weiss, al punto che Fischli giunge a organizzare nel 2014 una grande mostra nel Kunsthaus di Zurigo in cui il lavoro di Schnyder è messo a confronto con le opere del simbolista bernese Hodler. Li legano spunti tardoromantici, il titanismo, il vittimismo, la vita dell’uomo come minuscolo frammento del grande mondo della Natura, che è madre e matrigna allo stesso tempo. Ma mentre nelle tele di Hodler si respira la millenaria vita delle montagne e dei laghi, nella visione di Schnyder si aggiunge una forte minaccia per i bei paesaggi, il senso di una catastrofe imminente che potrebbe inghiottire tutto.

VIAGGI DI SILENZI E DI VOCI

Il video Albanian stories, del 1997, segna l’avvio della sua carriera internazionale, spinta da curatori tra cui Harald Szeemann: ancorato alla sua terra d’origine e basando tutto il suo lavoro su esperienze vissute personalmente, Paci da questo momento esplora le possibilità con le quali renderle universalmente significative, raccontando piccole storie nella storia di tutti i giorni. Storie semplici che potrebbero rappresentare momenti della vita di ciascuno di noi e che diventano una sorta di “vocabolario emotivo” per affrontare tematiche più ampie, come l’esilio, attraverso una pasoliniana “poetica del reale”. Ma è, soprattutto, in The wedding, del 2003, che l’esperienza personale diviene tema universale sul significato della vita, in un racconto per immagini che l’artista, come un poeta, dipana in piccoli quadri tratti da frame del video girato per il suo matrimonio, dipinti con una pittura svelta e quasi monocroma. La sfocatura dei personaggi e la voce silenziosa narrante concorrono al senso di straniamento utile a far prendere le distanze da quel mondo così caro ma ormai così lontano, appartenente a un immaginario sociale in cui gesti e sguardi sono congelati nella memoria e nell’immediatezza di uno scatto fotografico. “Molti dei miei primi lavori pittorici nascevano dall’andare a ripescare frammenti di quei video girati in famiglia. Sbriciolando la trama in tante piccole inquadrature, rispecchiavo il frantumarsi davanti ai miei occhi di un mondo e di una tradizione, e al tempo stesso me ne riappropriavo”. In questo modo, la rappresentazione della celebrazione di un rito universale e di un’occasione di aggregazione ridà vita agli attimi che ognuno si porta dietro nella valigia della memoria, facendo riflettere con apparente leggerezza sulla condizione esistenziale del migrante, gioiosa e tragica allo stesso tempo, e sul sacrificio dell’allontanamento da chi amiamo e dell’abbandono di ciò che più ci è caro e prezioso: le nostre radici. Perché cosa sarebbe l’uomo senza il senso di appartenenza alla terra? Senza quel legame profondo con gli affetti che hanno dato forma alla sua esistenza? Conta che tu esisti nella costante ricerca di punti di riferimento, che siano i luoghi inanimati delle attese e dei rapidi passaggi in cui cerchi un’eco, un contatto seppur fugace e rarefatto (Schnyder) o quelli legati per sempre alle persone che hanno fatto parte della tua vita (Paci). L’arte, allora, può essere al servizio delle nostre “vite in transito” (dal titolo della mostra su Paci nel 2013 al PAC Padiglione di Arte Contemporanea di Milano) e ci guida a percorrere un viaggio che guarda con nostalgia ai luoghi e alle persone che li hanno resi familiari o permette di ricreare la propria storia nelle storie di chi ci circonda, ambientandole in spazi del ricordo o del quotidiano funzionali alla narrazione. Le immagini diventano, così, possibilità di ricreare la vita, sia che siano luoghi congelati per costruire una memoria in spazi vuoti colorati che sembrano attendere qualcuno, sia che evochino ambienti monocromi resi vivi da movimenti congelati nell’atto di trattenere la memoria. Protagonista del vuoto che ha creato, Schnyder stabilisce, infatti, una forte presenza nel suo non esserci se non come spettatore, tanto che se chiude gli occhi può immaginare i rumori, le facce, i pensieri di chi parte e di chi aspetta. Mentre Paci si traveste da osservatore esterno, riproducendo dettagli e sfumature di un racconto di cui diviene anch’egli lucido spettatore, pur essendone protagonista. La dicotomia personale-privato e universale-collettivo, il senso di vuoto e di pieno, l’assenza e la presenza, l’attesa e il ricordo rendono poetica la descrizione di una condizione in cui la sofferenza è sottilmente allusiva, mai esplicitata. L’esistenza dipinta è rappresa in frammenti di vita che, in un dialogo continuo tra storia e narrazione, immediatezza e distanza, ci portano all’interno di un viaggio in cui sembra quasi possibile incontrare i personaggi, o perché bloccati nel tempo della memoria collettiva o perché sospesi tra la partenza e il ritorno.

Stefania Colonna Preti


A journey does not begin the moment we set off, nor does it end the moment we reach our destination: it begins much earlier and never ends, and the tape of memories continues to run inside even after we have stopped. But if for some people places live again thanks to the people who have shared them, others manage to construct a memory in the succession of images of objects and spaces of their everyday life where human presence, even if perceived, does not seem necessary. This is the case for Jean-Frédéric Schnyder (Basel, 1945), who burst onto the art scene in 1969 as one of the few young artists invited by Harald Szeemann to the exhibition "When attitudes become Form" at the Bern Kunsthalle. Although he started out as a self-taught conceptual artist with his life-long partner Margret, Schnyder soon began to paint in the wake of realism, fascinated by the art of photography. Using a relief painting technique, he reproduces from life and without any preparatory drawings the subjects he spotted while cycling or travelling by train, with easel and canvas on his back: selected from the many places of everyday life, these landscapes, placed in sequence, allow him to plant his roots in real, recognisable spaces. The thematic series of the one hundred and twenty-six views of Berne (1982-83), the ninety waiting rooms of railway stations (1988-89), the different viewpoints of an atomic power station (1992), the one hundred and forty paintings through the seasons of the N1 motorway that crosses Switzerland from East to West (1993, presented at the Venice Biennale as the artist chosen to represent Switzerland) and the visions of pure nature that reproduce one hundred and sixty sunsets over Lake Zug, thus represent those landscapes of the soul of which Schnyder, methodical and tireless, seeks to capture the beauty in an everyday life that becomes a tale, simple yet paradigmatic, that seems to represent reality when in fact the artist “re-creates” it to his own measure. Even when, staring at the hours and seasons that flow by on the motorway, he re-appropriates time, as he does space, almost as if to confirm a belonging to the daily flow of life. The different colours of dawn and dusk, in the changing seasons, fix the emotions of a perfect instant, as if the artist wanted to say, breathing the emotion that lasts as long as painting time, “I paint, therefore I exist”. Urban or natural man-made landscapes in which the human presence is not necessary because the individual is the one who looks and chooses which places to appropriate in order to build a memory, through a journey understood as knowledge of external realities that become self-knowledge, in search of fragments of a universal world to be frozen in individual time and in the constant search for beauty and simplicity in everyday life. Two exhibitions running concurrently in Berne this spring mark the definitive consecration of this, with a selection at the Kunstmuseum of paintings and large-scale sculptures from the museum’s collections and a selection of objects at the Kunsthalle. The return to this gallery marks for the artist, who is more at ease with the dexterity of making, the closing of a journey that began there more than fifty years earlier. A journey backwards, towards memory, is instead the one taken by Adrian Paci, an Albanian artist born in Shkodra in 1969, who fell in love with painting as a child while looking at his father’s painting books. After attending the Art Academy in Tirana at a time when, at the end of the 1980s, the communist regime exercised a form of conservative control over artists, who were pushed to follow party lines, Paci arrived in Italy in 1992, having obtained a scholarship to study Art and Liturgy at the Beato Angelico Institute in Milan. Back in Albania, in 1995 he started to teach courses in Art History and Aesthetics at the University of Shkodra, but in 1997, due to the unrest in the country, he moved permanently with his family to Milan, where he worked as a restorer and decorator.

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